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Il clima provoca una nuova lotta di classe?

by Mauro Pasquini
1 Giugno 2021
in 2030, Acqua, Agricoltura, Ambiente, Mondo, Politica, Primo Piano, Salute, Storie
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Lotta ai cambiamenti climatici come lotta di classe? Tutti i dati sulla sproporzione degli effetti tra paesi ricchi e aree disagiate del mondo sembra non lasciare dubbi in merito. Una riflessione di Matt Huber su Impakter.com dimostra come questo sia evidente anche all’interno delle società ricche, nel divario dell’impatto tra classi abbienti e non abbienti.

Cambiamenti climatici e lotta di classe. I dati dimostrano la correlazione

2,5 miliardi di piccoli agricoltori, pastori e pescatori dipendono dal clima e dalle risorse naturali per la loro sussistenza. Tutti costoro, assieme alle persone che vivono nei paesi più poveri del mondo, costituiscono la parte di popolazione mondiale più colpita dai cambiamenti climatici. Modelli meteorologici sempre più imprevedibili, stagioni mutevoli e disastri naturali minacciano in modo sproporzionato queste popolazioni, mettendo in pericolo i loro mezzi di sussistenza e aumentando il rischio di povertà e fame.

 

La sproporzione tra ricchi e poveri degli effetti del climate change

Tra gli effetti negativi, la denutrizione rappresenta il più grande impatto sulla salute dei cambiamenti climatici del 21° secolo. Il numero di persone denutrite nel mondo è in aumento dal 2014, raggiungendo quasi 690 milioni nel 2019. Stiamo parlando di quasi il 9% della popolazione globale. La stragrande maggioranza vive in paesi a basso e medio reddito. Tutti gli studi ricerca mostrano che la fame è più diffusa in Africa e in rapida crescita in America Latina e nei Caraibi. Purtroppo, non una novità. Il numero di persone denutrite nella regione dell’America Latina e dei Caraibi è aumentato di 9 milioni tra il 2015 e il 2019. Tutto questo configura di fatto la lotta ai cambiamenti climatici come una lotta di classe.

Un modello individuabile anche nelle società opulente

Matt Huber, in articolo su Impakter.com, fa un’analisi  puntuale di come questo modello non interessi solo le aree più disagiate del mondo. Questa sproporzione può essere infatti individuata anche nelle società più avanzate e ricche. Basta sostituire al concetto di paesi ricchi e poveri quello di strati sociali abbienti e non abbienti. Scrive Huber: “gli stessi sistemi di produzione al centro della crisi sono radicati secondo modalità razziali di accumulazione di capitale.

Dopo la seconda guerra mondiale, il capitalismo negli Stati Uniti era inteso come un regime fordista di accumulazione basato sulla produzione di massa per il consumo di massa. Questa era ovviamente una modalità di accumulo ad alta intensità di carbonio, per via delle emissioni dei settori petrolifero, siderurgico, automobilistico e della vita suburbana ad alta intensità energetica. Gli storici hanno etichettato questa era “La grande accelerazione”, in cui tutti gli indicatori ambientali sono saliti alle stelle.

 

Questo regime di accumulazione si basava sul possedimento della proprietà suburbana. Come riferisce George Lipsitz, tra il 1934 e il 1962, la Federal Housing Administration, insieme alla Veterans Administration, ha sovvenzionato oltre 120 miliardi di dollari in nuove abitazioni al pubblico americano, con meno del 2% di questa cifra assegnata a famiglie non bianche. Questo era un modo di produzione capitalista dipendente da modalità razziali di segregazione abitativa.

Articolo in parte tratto e tradotto dall’originale su Impakter.com, scritto da Matt Huber.

Tags: cambiamenti climaticiemissioni CO2lotta di classepaesi in via di sviluppopoveriricchisviluppo sostenibile
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